Un caso obliquo

Il sé ha sempre torto. La paratassi ha raccolto l’insubordinazione dell’utente. Questi necessita di una struttura morfologica che operi un argine alle incursioni delle variabili, impertinenti e irritanti al pari di un esantema insostituibile. Giustapposta la struttura, la paratassi è preoccupata. Essa ha smarrito la nota comprendente il nome dell’utente. La fiducia non consegna la paratassi all’isolamento. Quest’ultima accompagna il ricordo verso il discorso insubordinato, l’utente risiede in via della grammatica. Giunta sul posto con tanto di struttura morfologica, il cui peso non consente una corretta giustapposizione, la paratassi chiama l’utente. Tra gli insulti dei pronomi che la esortano a utilizzare i collegamenti e ad andare nelle proposizioni posteriori, urla l’ininterrotto vocativo.

Assenzio

La donna perseguitata dal fato, tanto che lo scorge assottigliato e deformato dalle colonne della popolare illuminazione, umbratile nelle svolte dell’instradamento, lunatico nelle inclinazioni della correzione, persino camuffato da privazione, rientra, dopo un’elaborazione, nel dire locale in affitto. Suggellata l’oralità d’ingresso con un sospiro, conveniente con la supposizione che il fato sia stato trattenuto altrove, la donna barcolla, una vertigine intrattiene il suo corpo. Le voci nel dire locale sono in sesto, ella ne è assalita, da sinistra: bentornata a casa! – mi auguro che la tua giornata di lavoro sia stata appagante – disponi pressappoco di un’ora prima di raggiungere gli amici al teatro; da destra: non vedevo l’ora che rientrassi, non sai quanto mi sei mancata! – non nascondermelo, se hai avuto sentore di essere seguita – il verde ti dona molto, corrisponde al tuo sguardo.

Scaramanzia

L’alba in cui confida affinché il giorno sia propizio rifiuta le ripercussioni ombrose. Con la schiena perpendicolare e le gambe allineate al materasso memorabile stropiccia le palpebre ancora aderenti all’adiaforia notturna. Per nessun accidente può poggiare la pianta del piede sul pavimento temperato o dedurre la memoria, prima di aver eseguito la funzione. Con una torsione del busto estende il braccio sinistro per raccogliere dal comodino immobile alla sua destra carta e penna, come sempre poggiati lì avanti del sonno. Scrive. No. Prova a scrivere. L’inchiostro è invisibile. Fortunatamente, un corpo linguistico è presente negli ambienti contigui. Con cortesia, chiede che gli siano portate due o tre penne. Grato, augura un favorevole giorno al corpo linguistico che abbandona la contiguità. Sciaguratamente, nessuna delle quattro penne scrive, anche se non concederà l’oblio al materasso prevede un giorno, disperando inoltre per la notte, stravagante.

Contrappunto

L’esecuzione degli strumenti del sottosuolo ha riscontrato un’esauriente partecipazione, per di più le ristrettezze della situazione ne hanno intensificato la ricettività.  Reduce dal seguito la nota è insordita. Risentita con lo stato enigmatico che non le accorda le consuete melodie, l’allineamento della nota e del segno, il ritiro del nobile contrassegno, la persistenza di un marchio ispirato dalla risonanza del triangolo, la danza di una tetragona gnosi, decide di accantonare le remore e rivolgersi all’esponente dell’appartamento contiguo. Pur essendo sicura di aver battuto più colpi all’uscio, la nota non distingue le sensazioni auditive. Invitata all’introduzione, prolunga la durata del disincanto. La nota imita punto.

Vanitas vanitatum, et omnia vanitas

Teneva nel guardaroba fra la calligrafia, i caratteri stampati e le litografie, un foglio bianco. Ogniqualvolta principiava l’elaborazione apriva il cassetto della scrivania e da una risma sottraeva una pluralità di fogli ammassati gli uni sugli altri; dopo averne collocata la coerenza sul piano si avvicinava al guardaroba, apriva le ante e studiava il caos per definire l’albedine. Giustapposto il foglio bianco ai fogli ammassati, insensibile al dislivello delineava l’estasi del primo per riempire la pluralità. A differenza dei fogli vuoti che non emulano altro che l’adempire, il foglio giustapposto precide il vano, esso non esprime né contiene alcun segno, fin qui. Il foglio non più bianco definisce l’albedine.

Aia

Non c’è più spazio. Enunciato per lo più vero. Gli strati delle strutture stabiliscono la distensione su sezioni, aree, zone, regioni, settori tantoché la domanda di contorno inerente le frazioni destrutturate è inaudita. Quel che a tutta prima è stato integrato come un ridimensionamento dell’estensione in vista di un fabbisogno di ricoveri per i concetti sempre più prodotti, moltiplicati, ha ricondotto lo spazio alla scomparsa, concludendo così le vuote disputazioni. Eppure l’enunciato è logicamente falso. Lo spazio si è ritirato in una contiguità non riscontrabile dalle strutture là dove esso non diletta, come argomenta il generale e dispiegano i particolari, il vuoto con passatempi delimitativi. Privilegia disporre la stoppia sull’aia.

Diplacusia

Il praticante sente fischiare gli orecchi. Coscienzioso nel determinare la sorgente dell’eccitazione fischietta un’aria disorientante e simultaneamente mette all’indice i condotti uditivi. Ammutolito rileva una differenza d’intensità nella continuità sibilata. L’orecchio destro, una volta esiliato l’indice nella soglia di udibilità, dà udienza alla concitazione, un processione di suoni che enfatizza la pratica della benedizione e non vibra al silenzio. Anche se favorito dal sincronico esilio, nell’orecchio sinistro ancora incombe la proibizione di inserire se non ricondurre le estremità, è inaudita tale diversità di ascolto, indubbiamente attribuibile a quel mostro del corpo tutt’orecchi che in pratica maledice solo per darsi delle arie.

Passim

Tra i piedi del settimanile giace il gatto. Il bipede ispeziona l’intero voluminoso contesto senza comparazione. Adatta la ricognizione all’affezione, ai topoi ove il miao è solito esaltarsi, purtroppo l’eccitazione è incorporea. Appiana l’opera, lascia che il formato adoperato cada in piano, istruito sulla sensazione come incitamento; no, persino la ricaduta, financo la pluralità delle opere sparse sul piano non smuovono la ricerca. Contrae le labbra e le rilascia in un schiocco, reitera l’operazione divagando nel contesto, poiché combacia soltanto la lacuna il bipede risolve per piegare gli arti inferiori e aderire con le estremità degli arti superiori al verso. L’impostura dell’adesione dura un istante. Vaga gattoni.

Il granchio

L’errore non è finito. Dal livello del marciapiede Elena non pensa alla dimensione dei tacchi, oltrepassa l’ostacolo comunale, trasferisce le scarpe dalle estremità locomotorie all’affinità prensile e a piedi nudi saltella di scoglio in scoglio per avvicinarsi all’iscrizione. Ferma sul tòpos depone le scarpe sullo scoglio giustapposto, osserva le increspature della superficie liquida, odora la salinità dei rifiuti utopici e con il garbo delle pieghe, con le inclinazioni delle natiche occulta la negazione. L’errore è finito.

Vidimus

La licenza di divagare con l’oggetto portatile gli è negata. Stizzito nei riguardi del provvedimento illegittimo ché lo relega in una condizione di irremovibilità esige di sapere. È accessorio che egli porti con sé l’oggetto, a garanzia della materia pubblica ne può reclamare il trasferimento. No; necessita che l’oggetto sia ovunque deposto pena una recisione. Niente da fare la condizione di irremovibilità riguarda anche l’illegittimità. Egli calcola a menadito gli avvicendamenti delle ispezioni strumentali sempre a garanzia della materia pubblica, assicuratosi della dinamica scoperta va a zonzo con l’oggetto che fuoriesce dalla tasca posteriore destra dei pantaloni.

Noi non abbiamo visto nulla.